08 novembre 2006

La caduta degli Dei

Forse hanno poco di divino, ma per qualche tempo ci sono andati molto vicini. Si sta parlando dei cantanti. “Cantanti”. Che parola antica, già desueta, una parola che i quattordici-quindicenni del giorno d’oggi forse non usano neanche più, perché facente parte di un vocabolario in disuso. Ad esempio, provate a chiedere ad un ragazzo nato dopo il 1990 cosa sia un gettone telefonico o com’era il mondo senza il cellulare. I cantanti, ormai, fanno parte di questo mondo. I cantanti così come li intendo io. Non le veline-letterine-tronisti-amicidelladefilippi che diventano cantanti (o meglio, aprono la bocca e fanno uscire qualche nota sgraziata). Quelli che quando chiedevi ad un bambino “che vuoi fare da grande” ti rispondeva il cantante o il calciatore. Il calciatore rimane, ma al posto del cantante ci sono altri mestieri: dal politico al naufrago dell’isola dei famosi (si chiamano “naufraghi” ?).

I cantanti: negli anni ’30 e ’40 erano solo voci aggraziate che uscivano fuori da un bel mobiletto in legno che faceva bella mostra di sé in salotto. La sera si accendeva ed oltre alle “fiction per non vedenti” dell’epoca (I Tre Moschettieri, Il Feroce Saladino e tante altre) si ascoltavano con piacere le voci del Trio Lescano, Ernesto Bonino, Vittorio De Sica, Carlo Buti e Luciana Dolliver. Canzoni senza pretese, alcune anche molto belle. Nel dopoguerra i vari Natalino Otto, Oscar Carboni, Luciano Tajoli e la giovane Nilla Pizzi rimanevano ancora delle voci senza volto ma già stuzzicavano la fantasia degli ascoltatori. Chi c’è dietro NON HAI PIU’ LA VESTE A FIORI BLU o QUANDO LA LUNA GIOCA A NASCONDARELLA? Boh, avranno detto le varie Mariella, Graziella, Leda e Gisella dell’epoca, nomi in voga fra le adolescenti di quegli anni. L’importante era sentire la canzone.

Le facce alle quali tenevano di più erano ancora quelle degli attori come Gregory Peck o Robert Taylor. E questo fino ai primi anni cinquanta. Periodo in cui anche i cantanti si danno al cinema: Claudio Villa docet. La televisione ancora non c’è e per vedere Achille Togliani non bastano più le statiche foto dei fotoromanzi di Grand Hotel. Lo vogliono vedere in movimento, magari intento a baciare Sofia Loren (non ancora SOPHIA) ne IL PAESE DEI CAMPANELLI. Poi di colpo la tv. Che sconvolge tutte le antiche abitudini (alcune di secoli) degli italiani. E si comincia a fare una cernita: quel cantante è poco telegenico quindi è meglio non appaia. Quella cantante è molto graziosa: portiamola sul video.

In questa selezione un po’ razzista, a farne le spese sono quei cantanti un po’ troppo particolari per aspetto fisico. Sorgono così delle indecisioni: ad esempio, Luciano Tajoli. Cosa farne? Finchè cantava dalla radio non si sapeva fosse affetto da poliomelite alle gambe. Lo si manda davanti al video facendo leva sulla pateticità del caso oppure lo si cassa? E la Jula De Palma pre-TUA, è forse troppo sexy per gli ancora ingenui teleutenti? Katyna Ranieri è meglio che porti vestiti accollati oppure la si manda davanti al video con quel vestito a balconcino sul davanti? Arriviamo al 1958-1959. E arrivano gli urlatori: Celentano e Mina, Dallara e Betty Curtis, Joe Sentieri e Peppino Di Capri. Certo, ci sono anche le varie Tonina Torielli o Anna D’Amico, ma già subodorano di avere le ore, anzi, le note contate. E Modugno? E Buscaglione? E melodici come Dorelli e Tony Renis? Sono nomi che tutti vogliono vedere sul video perché entusiasmano i ragazzi perché sono personaggi nuovi, gli adulti perché sono incuriositi.

In fondo questi fine anni cinquanta sono una novità per tutti. Il mondo cambia e con il mondo anche i suoi protagonisti. Al di là dell’oceano ci sono fenomeni come Elvis Presley, Marilyn Monroe e Marlon Brando. Noi abbiamo Mario Riva, Mike Bongiorno e Wilma de Angelis. Certo, la competizione è difficile ma siamo tipi che ci sappiamo far bastare quello che abbiamo. Ed eccoci al boom. Sia economico sia delle canzoni e dei cantanti. Qual è quella cosa che oltre al pane, si vende di più in Italia tra il 1962 e il 1965? Ma è il disco a 45 giri. Vagonate di dischi, milioni di milioni. Chiudono le mercerie ed aprono negozi di elettrodomestici che vendono oltre alle radioline a transistor e i televisori, giradischi di tutte le forme e dimensioni e naturalmente dischi dischi dischi. Chi a casa non ha un disco di Rita Pavone? O di Adriano Celentano? O di Gianni Morandi? Ma tutti! Dal bambino di 3 anni che non mangia se la mamma non gli mette PEL DI CAROTA alla nonnetta che si commuove per come si macera quello lì che è disposto persino a tornare in ginocchio da lei... povero ragassuolo, come soffre!

E la televisione aumenta a dismisura la fama dei cantanti (e la fame del pubblico per loro). Ormai in tv comandano loro. C’è quasi un programma di canzoni al giorno. Tutto ruota intorno a quell’oggetto rotondo con un buco in mezzo. Nascono balli che il giorno dopo soccombono per far posto a quello nuovo. Il twist, il surf, il grab, il madison, il letkiss... e quanti altri ce ne sarebbero, della durata di una sola stagione o anche meno. I settimanali dedicano le loro copertine a Mina , alla Pavone, alla Cinquetti. Un po’ meno ai maschietti ma tanto arriverà il 1965, prima o poi ..e col 1965 il boom dei giornali per teen agers, per ragazzine yè-yè per giovanissimi, che fra un anno saranno ribattezzati BEAT! Nel 1966 tutto è beat! Anche il dopobarba (la Proraso Beat, per barbe beat). Quindi un calcio al sedere a tutti quelli che erano stati i nostri idoli fino ad un anno e mezzo fa: Edoardo Vianello, Gino Paoli, Pino Donaggio, Peppino Di Capri. Per non parlare di quei matusa di Umberto Bindi, Tony Dallara, Caterina Valente, lo stesso Modugno. Puff... spariti. Vecchi.

Il 1966 è giovane, veloce, fresco, optical, un po’ Courreges e molto Mary Quant. A noi adesso piacciono i Corvi, gli Equipe 84, I Giganti, Caterina Caselli. Sappiamo se Shel Shapiro dei Rokes è fidanzato perché c’è l’ha strillato in copertina GIOVANI, sappiamo se Paul dei Beatles preferisce l’ala alla coscia perché ci informiamo su BIG. Viviamo perennemente a 45 giri. La varie Patty, Michela, Stefania (nomi alla moda in questi anni) sui diari di scuola invece di scriverci i compiti ci incollano la foto dei Rolling Stones. Al Senato, in discussioni importanti si citano stralci di canzoni ("e sottolineo se" da E SE DOMANI). Ormai gli attori non contano davvero più nulla rispetto ad un Little Tony qualsiasi. E non va meglio nel 1967, nel 1968 e nel 1969. I cantanti sono i personaggi più amati, più ammirati e più invidiati in Italia. Più dei calciatori, più degli attori, più di tutto. Perfino i quotidiani si adeguano: ogni giovedì o venerdì o sabato presentano una classifica delle canzoni più vendute in Italia.

Fa chic citare i cantanti come una volta faceva chic citare i poeti o gli scrittori. Uomini e donne di tutte le età ballano lo shake al Piper insieme a ragazzini di 14-15-16 anni. Visconti, Pasolini, Christian Barnard, De Sica, la Lollo, Brigitte Bardot. Chi non va al Piper è un reietto della società. Non conta niente, non fa opinione. I TG un giorno sì ed un altro pure, fanno vedere chi era sul luogo del misfatto la sera prima, mentre cantava Patty Pravo o Rocky Roberts e gli Airdailes. Siamo al culmine. I cantanti possono ormai permettersi di tutto, cantare qualsiasi cosa e anche mandare a quel paese il pubblico (Patty Pravo ad Aprilia, tanto per fare un nome). Comunque vada,ci sarà sempre qualcuno che se li porterà a casa sotto forma di vinile o di carta stampata. Ecco, è in questo momento che forse possiamo paragonarli a dei novelli dei.

Ma arriviamo al 1970. Qualcosa cambia. Cambia la società e cambia la gente. Si cominciano a vedere le cose con maggiore distacco, complice anche l’atmosfera che non è certo delle migliori. Il boom economico è ormai solo un ricordo. Questo è il periodo degli scioperi, delle guerre urbane e del piombo un tanto al grammo. Con incredibile tempismo, anche i cantanti tradizionali se ne rendono conto. E comincia un’evoluzione sul fronte “canzone”. I dischi si vendono ancora, sì, ma non nella misura di qualche tempo fa. Al pubblico non basta più che i cantanti facciano solo i cantanti: debbono improvvisarvi entertainer, debbono saper stare sul palco, colloquiare col pubblico, recitare. IL SIGNOR G di Gaber e GLI ITALIANI VOGLIONO CANTARE della (quasi) risorta Rita Pavone lo dimostrano. Così come i recital di interpreti come Milva e la Vanoni. Un pò canzone, un po’ intrattenimento.

Scordiamoci i film musicali degli anni sessanta basati sul titolo di una canzone di successo, che tanto hanno incassato nei cinema di periferia o di paese. Se un cantante decide di recitare deve farlo con tutti i crismi. Massimo Ranieri, Gianni Morandi, Adriano Celentano fanno film “seri”, da veri attori. Lo stesso 45 giri sembra un po’ in ribasso. Ora vanno i nastri e gli album. Il biennio 1971-72 è il più rappresentativo nella storia della musica leggera italiana (e forse mondiale). In questo periodo il panorama musicale è a 360 gradi. C’è di tutto: c’è il folk italiano e internazionale, c’è il genere melodico pop e il genere melodico e basta. C’è il progressive, c’è l’hard rock, c’è il cantautorato di un certo tipo e quello per palati un po’ più semplici. Ci sono i cantanti per giovani e quelli per meno giovani. Ognuno ha una canzone che lo rappresenta per età, per classe sociale, per interesse.

Penso che sia davvero la prima ed unica volta da che esiste l’industria della canzone in Italia. Cantano i bambini di tre anni come le nonne di 90. JESAHEL la cantano gli adolescenti, Battisti e Mina i più grandicelli, la Vanoni i 35-40 enni ed oltre, così come Aznavour, Di Bari i 50 enni etc. etc. E la cosa bella è che tutti questi personaggi sono intercambiabili! Possiamo cioè vedere una madre di una teen ager che canticchia MY WORLD dei Bee Gees come una 13enne che intona IL CUORE E’ UNO ZINGARO. C’è anche un genere che non è semplice definire con una parola (perché ancora non esiste una parola per definirlo) ma che lo si sente nelle discoteche. Ci sono i cantanti da competizioni televisive e quelli che ai vari Sanremo non ci vanno perché non ne hanno bisogno. Ma soprattutto ci sono i cantanti amici.

Chi sono i cantanti amici? Sono quelli che in ogni Canzonissima o Disco Per L’Estate che si rispetti o in ogni programma televisivo ce li ritroviamo sempre tra i piedi. Siamo indecisi se debbano esserci antipatici perché presenzialisti o simpatici perché ormai di casa. E sono gli stessi cantanti che ogni settimana sbucano fuori dalle pagine di riviste come Novella 2000, Eva Express, Oggi, Gente, Sorrisi e Canzoni. Sono una casta a parte, non più di dieci di numero. Praticamente sono una parte di noi. Una famiglia un po’ cialtrona ma rassicurante. E come si fa con i parenti invadenti, certe volte ci stanchiamo di vederceli sempre d’intorno. I loro nomi sono Massimo Ranieri (il fratellino minore però assennato), Rosanna Fratello (la sorella "bona" ma timorata), Iva Zanicchi (la zia ruspante stile Lisa Gastoni), Milva (la zia sofisticata e saccente), Ornella Vanoni (la mamma genio e sregolatezza), Claudio Villa (il nonno rompiscatole), Orietta Berti (la cognata demente ma a suo modo utile), Gianni Morandi (il fratello maggiore che però è già via da casa), Mino Reitano ( il cognato che sì, è simpatico però che palle), Al Bano (il cugino di campagna), Gianni Nazzaro (il fidanzato fighetto della sorella bona), Nicola Di Bari (il portiere del palazzo), Peppino Gagliardi (il bidello).

E’ una famiglia di quelle sane, che sembra resistere alle mode e ai tempi. Tanto, a parte la Vanoni, nessuno di loro conta ormai qualcosa al di fuori del contesto televisivo in termini di vendite di dischi. Ma nel 1974, l’anno del divorzio, questa famiglia va in mille pezzi. Gli amici non sono più amici, ognuno va per conto suo. Finisce Canzonissima, finisce il Disco per L’Estate, finisce Sanremo. Il 1975 è l’anno più buio. D’improvviso ci sentiamo spaesati. Zia Orietta ha smesso di farci le torte e il portiere Nicola Di Bari è stato licenziato senza preavviso. Un manipolo di cantanti nuovi ha ormai preso il loro posto. Nomi mai sentiti prima (o quasi): Drupi, Gianni Bella, Sandro Giacobbe, Marcella, Cocciante, Venditti, De Gregori, Umberto Balsamo. Senza contare queste comuni che si ostinano a chiamare complessi: I Cugini Di Campagna, Il Giardino dei Semplici, La Bottega Dell’Arte, Gli Alunni Del Sole, i Daniel Sentacruz Ensemble.

Tra cortei di slogan e spranghe, tra P38, tra siringhe, tra Pannellate varie arriviamo al 1977-78. Sanremo è ancora in coma, la musica da discoteca ha finalmente un nome: DISCO MUSIC. Tra uno STAYIN’ ALIVE e l’altro ci passano sopra Moro, Wojitila, la tv a colori e via discorrendo. La canzone per bambini si affaccia e scompare. I cantanti ci sono, sono presenti ma non sono più quelli di prima. Non sono più, cioè nostri amici. Possiamo considerare Roberto Vecchioni un amico? Branduardi un amico? Alan Sorrenti un amico? E Battisti? L’unico – forse – amico che ci siamo fatti è Renato Zero che in questo biennio (1978-1979) sembra usare un vocabolario più umano, più alla portata di tutti. Tra il 1980 e il 1983 c’è la riscoperta di vecchi valori. Uno su tutti, il Festival di Sanremo. Finalmente ritroviamo quei personaggi che la critica sbrana a pranzo e a cena, ma che sono bene o male similari a noi. Un po’ come quella famiglia di dieci anni prima. Ci sono i Ricchi E Poveri, Fiordaliso, Christian, Toto Cutugno, Al Bano e Romina, Loretta Goggi, Heather Parisi, Riccardo Fogli. E periodicamente si affacciano alla ribalta personaggi nuovi, che in breve tempo cominciano a far parte della famiglia immaginaria. Certo, non è più quella famiglia, ma sempre meglio che niente. E poi finalmente possiamo ricominciare a far finta di prendere le distanza da questi parenti un po’ buzzurri e confusionari. Ricchi & Poveri? Bleah... preferisco Gianna Nannini! Toto Cutugno? Che burino! Meglio Barbarossa. E’ un bel gioco: ci ritroviamo di nuovo con dei personaggi amici-nemici da sbatacchiare come vogliamo. Possiamo far finta di detestarli e poi , nel silenzio delle nostre stanza, canticchiare quella canzoncina che “però devo ammettere, è veramente orecchiabile”.

Andiamo avanti fino al 1990. Poi di colpo, il nulla. Qualcuno ha spento la luce. Ci sono ancora i cantanti ma quasi non li notiamo. Tangentopoli, il crollo dei partiti così come li conoscevamo da decenni, nuove altre compomenti politiche alla ribalta, la fine – per alcuni – di un’illusione, di un ideologia: il crollo del muro. Tra il 1994 e il 1996 sembra quasi che qualcosa rinasca ma è un illusione di pochi minuti. Da quel momento in poi ad oggi (anno domini 2006) il silenzio di tomba. I cantanti, nel nostro immaginario collettivo sono stati soppiantati da veline, letterine, pupazzetti, naufraghi, calciatori, politici, attorucoli, etc. etc. I giornali non presentano un’immagine di un cantante in copertina a pagarli oro. O meglio, lo fanno se vengono pagati dalle major. E quindi se esce un disco di Baglioni o di Ramazzotti hanno per due settimane un notevole parco di riviste per subnormali (Man’s Health e Vanity Fair, tanto per NON fare nomi) che si occupano dell’evento. Gli altri non esistono. Perchè non vendono e non fanno vendere. Perché a nessuno gliene frega niente di Alessio Caraturo, di Anna Tatangelo, di Pago, di Francesco e di Dennis. Ma chi sono? Ma chi li ha chiamati? Ma che vogliono? Ma chi rappresentano? Se rappresentano l’Italia, meglio dirsi norvegesi!

Però anche all’estero non è che stiano meglio di noi. In Usa ormai le classifiche (o quel che ne rimane) sono di dominio di cantanti ispano e afro americani: hip hop, rap, salsa. La canzone americana è finita. The game is over. Così come nelle altre nazioni, una volta capofila della musica mondiale. Oggi al posto dei cantanti e delle canzoni esistono suonerie per i cellulari, wallpaper e loghi con le immagini di Dr. Dee o 50 Cent che escluso un ristretto manipolo di giovanissimi, non conosce nessuno. Ma avete più sentito cantare una canzone per la strada? E se sì, a che anno risale quella canzone? Ci fate caso che i ragazzi a differenza dei loro coetanei di 15-20-25-30 anni fa, sentono molta meno musica? Perché non esiste. L’altro giorno ai Gigli di Campi Bisenzio ero seduto in un ristorante e dietro di me c’erano dei genitori sui 35-40 con due figlie tra i 5 e i 6 anni. Hanno canticchiato nell’ordine: ALLA FIERA DELL’EST (classe 1977) e MONTAGNE VERDI (classe 1972). Queste bambine saranno nate tra il 1999 e il 2000. Al tempo di quelle canzoni i loro genitori o erano appena nati o avevano tra i 9 e i 10 anni. Penso sia abbastanza rappresentativo del momento in cui viviamo. Io ho anche un’idea del perché siamo ridotti a questo punto. Ma se lo dico poi mi tacciano di estremismo. Di sicuro,
una canzone come CON QUELLA FACCIA DA ITALIANO della Colli (1981) non si potrebbe più scrivere: "dalla finestra spalancata, che straordinaria voce acuta, una canzone una di quelle vere, va avanti e indietro sulle impalcature, ma cosa avranno sempre da cantare i giovani operai...".

Ecco, se qualcuno sente cantare da una finestra un giovane operaio (ma mi basta anche una massaia qualsiasi) una canzone scritta negli ultimi dieci anni, me lo faccia sapere. Fiducioso, attendo.

"La caduta degli dei" Compilation

C'ERA UN'ATMOSFERA - KIM & THE CADILLACS
CANTA (CHE TI PASSA LA PAURA) - HERBERT PAGANI
THOSE WERE THE DAYS - MARY HOPKINS
THE DAYS OF WINE AND ROSES - HENRY MANCINI
C'ERA UNA VOLTA... ANZI DUE - ALBERTO LUPO
IO CANTO - RICCARDO COCCIANTE
CANZONI STONATE - GIANNI MORANDI
CANTA - DRUPI
RIEN NE VAS PLUS - ENRICO RUGGERI
THE END - THE DOORS

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bravo Christian, bell'articolo.
Mi sono divertito molto a leggerlo ...anche se il 1974 non è l'anno del divorzio (la legge 898 è del 1° dicembre 1970), ma quello del referendum sul divorzio. Referendum drammaticamente perso dalla DC e dal suo leader di allora: Fanfani.

Comunque, concordo con te sul fatto che il mondo della canzonetta e dei cantanti si sia accartocciato su se stesso. Tanto che uno dei fenomeni emergenti degli ultimi dieci anni è quello delle "tribute-band".

Una volta tutti volevano imporsi con la loro musica originale; oggi tantissimi giovani musicisti (tecnicamente molto più preparati di quanto non fossimo noi venticinque anni fa) formano delle band che rifanno il repertorio di questo o quell'artista, di questo o quel gruppo famoso. Ed il bello è che fanno decine di concerti ed hanno un seguito. Il pubblico li ritiene un buon surrogato e li apprezza, perché ripropongono (spesso in versione "fotocopia") il repertorio dell'artista "tributato"... ed anche perché assistere allo spettacolo di un gruppo tributo costa molto meno che andare al concerto dell'artista di fama!

Infatti, non solo ci sono tribute-band dei Beatles, dei Doors o dei Pink Floyd (vale a dire di band storiche oramai non più attive), ma anche degli U2 o dei Metallica, di Ligabue, di Zucchero o di Vasco Rossi.

Francamente mi sfugge il senso di simili operazioni, ma non posso far altro che constatare che mentre un tempo - fino ai primi anni novanta - i giovani musicisti declinavano un genere (il pop, il rock, il funky, ecc.), oggi declinano un artista. Ci sono batteristi che suonano proprio come Terry Bozzio (ricordo ancora quando il mito dei batteristi era Billy Cobham... che tempi!), chitarristi elettrici cloni di Joe Satriani (ai miei tempi si cercava di capire come diavolo facesse Eddie Van Halen a fare Eruption o l'assolo di Beat it, senza volerli rifare uguali), bassisti replicanti di Tony Levine, e così via.

In questo quadro, mi pare, in tutta sincerità, molto difficile ricreare il clima dei sixties di cui parla Christian.

In compenso il livello tecnico dei musicisti si è molto innalzato e, forse, ciò potrebbe portare anche ad uno spostamento di interessi: dalla musica leggera (anzi: leggerissima), al jazz ed ai generi di contaminazione.

Speriamo bene.

Anonimo ha detto...

Bellissimo articolo, caro Christian, scusa il ritardo nel commentarlo, le tue riflessioni sono sempre più calzanti con lo spirito del tempo che descrivi, sempre più evocative, e io che ho vissuto così intensamente questo percorso di anni "musicali" sento uno strappo nel cuore. Forse quello che mi viene in mente è che vedendo come si evolve il mondo, certi cambiamenti avvengono sia su un livello etico-culturale, sia in quello economico. Gli anni del boom e la passione per i "personaggi" rispecchia un bisogno di affettività e finalmente di benessere, dal decennio successivo alla guerra in poi. Per il resto tutto ha seguito la strada dei cambiamenti legati anche alla diffusione della cultura democratica e di sinistra, che se per certi versi hanno costituito una conquista, dall’altro sotto l’impulso delle posizioni estreme e della diffusione della cultura marxista, hanno manifestato degli eccessi che hanno danneggiato la cultura dei valori tradizionali. Una sorta di irrisione verso tutto quello che era questo rapporto intimo con le emozioni che dava la televisione, come un qualcosa di cui ci si dovesse vergognare. All’inizio degli anni 70 è stato un po’ così. Nei decenni questa opportunità di accedere sempre di più ai mezzi di comunicazione ci ha portato attraverso la furiosa diffusione dell’informatica a comunicare attraverso internet con tutto e con tutti, nel bene e nel male. Anche la musica ha risentito di questo, sia perché l’industria discografica è meno ricca, ma soprattutto perché si sono spersonalizzati i mezzi, è come se la creatività fosse stata spogliata di tutti i suoi indumenti e mandata malamente in giro per strada nuda. La musica è meno vera anche perché è fatta con strumenti finti e da non musicisti. Questo inaridimento va di pari passo con questa disordinatissima immigrazione; questa promiscuità delle culture che tanto piace alla sinistra, sta rendendo priva di vita l’identità delle culture nazionali, e anche musicali. Non sto negando l’apporto rivoluzionario dell’informatica né sto negando che la musica sia un mezzo per la comunicazione tra culture (il rock stesso viene dalla musica nera), ma sto cercando di dire che il mescolarsi disordinato di culture non permette di far funzionare quelle che si chiamavano “contaminazioni” tra culture con una propria identità definita e che erano quelle a stimolare realmente vere esplosioni di creatività artistica.

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